foto: corriere della sera
Dal “non potrei mai tornare da avversario” alla panchina bianconera: la parabola incoerente di un allenatore che ha perso credibilità.
Luciano Spalletti aveva pianto, commosso, raccontando di non poter “mai tornare a Napoli da avversario”.
Aveva tatuato lo scudetto sul braccio, parlato di un legame viscerale con la città, di un rapporto umano che andava oltre il calcio. Eppure, alla prima occasione utile dopo il fallimento con la Nazionale, eccolo presentarsi in conferenza stampa con la sciarpa della Juventus, la rivale storica dei tifosi azzurri.
Una scelta che va oltre il semplice cambio di panchina: è una frattura morale, un tradimento emotivo verso chi lo aveva idolatrato. Spalletti, che amava definirsi “uomo di valori”, ha scelto la via più comoda, non quella più coerente.
La battuta infelice e il nervosismo in conferenza
Durante la presentazione ufficiale a Torino, il nuovo tecnico bianconero ha tentato di smorzare le tensioni con una battuta sul suo celebre tatuaggio del Napoli:
“Mi sono fatto tirare il sangue dall’altra parte.”
Luciano Spalletti
Una frase che ha scatenato reazioni amare tra i tifosi partenopei, suonando più come una provocazione che come ironia. E quando un giornalista ha citato un video virale risalente ai tempi del suo trionfo in azzurro, Spalletti si è innervosito: “Quello scudetto resterà indelebile, nulla è cambiato.”

Parole che sanno di difesa d’ufficio, non di convinzione autentica. Perché se davvero “nulla fosse cambiato”, Spalletti non siederebbe oggi sulla panchina più lontana possibile dallo spirito di Napoli.
Un uomo di slogan che dice di non amarli
“Non mi piacciono gli slogan”, ha detto Spalletti in conferenza. Eppure, negli ultimi due anni, la sua carriera ne è stata piena: “La mia felicità è a Napoli”, “Non esiste un posto migliore”, “Non potrei mai farcela a tornarci da avversario”. Slogan, appunto. Oggi, alla Juventus, quelle parole suonano come vuoti esercizi retorici, simbolo di un allenatore capace di motivare tutti, tranne se stesso davanti allo specchio.
Conte, la differenza tra un professionista e un illusionista
Il paragone con Antonio Conte è inevitabile. Conte, nonostante il suo passato juventino, ha sempre mostrato chiarezza e rispetto ovunque sia andato.
Quando gli chiesero di un possibile futuro a Napoli, rispose con onestà:
“Non chiedetemi di rinnegare il mio passato, ma sarò il primo tifoso della squadra che alleno.”
Antonio Conte
Parole che racchiudono una filosofia limpida: professionalità senza ipocrisia. Conte non ha mai cercato di vendere emozioni che non provava, né di ingannare il pubblico con proclami sentimentali. In un’epoca di “incantatori di serpenti” (come lui stesso li definì) Conte rappresenta la chiarezza, Spalletti l’ambiguità.

De Laurentiis aveva previsto tutto: la penale come atto di lucidità
Nella sua biografia, Spalletti rivelò che Aurelio De Laurentiis aveva voluto inserire una penale nel contratto per impedirgli di allenare altri club italiani. Molti allora giudicarono la mossa come un eccesso di controllo. Oggi, però, è chiaro che De Laurentiis aveva ragione. Temeva che Spalletti potesse seguire Cristiano Giuntoli alla Juventus, e così è stato. Una mossa di lungimiranza straordinaria, che proteggeva il club e anticipava il comportamento di un allenatore disposto a cambiare bandiera in un attimo.
Conclusione: meglio Conte di mille Spalletti
Nel calcio moderno, dove la coerenza è merce rara, Antonio Conte rappresenta ancora l’idea del professionista vero: diretto, concreto, leale. Spalletti, invece, ha scelto di inseguire la convenienza sacrificando la credibilità.
Alla fine, De Laurentiis aveva visto giusto. E i napoletani, che lo avevano accolto come un profeta, oggi si ritrovano davanti l’ennesima conferma che nel calcio (come nella vita)nle parole pesano solo se restano coerenti con i fatti. Spalletti lo aveva dimenticato. Conte no.